Di Ilary Certa
Il valore del lavoro In molti Stati del mondo e in Italia, il Primo Maggio si celebra la Festa del Lavoro, in onore di tutte quelle conquiste ottenute faticosamente dai lavoratori nel corso della storia. Compiere un lavoro è indispensabile per ogni individuo, il quale deve guadagnare un compenso sufficiente a garantire una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia. Tuttavia, ridurre l’attività lavorativa ad una mera necessità economica, è umanamente errato: il lavoro è un diritto e un dovere, un pretesto per acquisire nuove competenze e per contribuire alla comunità, un’occasione per esprimere la propria personalità e per mettersi alla prova.
Ma se gli uomini avessero sempre pensato al lavoro in questi termini, che motivo avrebbe di esistere la festività odierna? La suddetta concezione di “LAVORO” è un recente acquisto. Secoli dopo secoli, essa ha subito delle variazioni tanto lente quanto radicali, evolvendosi in concomitanza all’essere umano, ai suoi bisogni e alle sue capacità.
Punizione o necessità? Secondo un antico mito, che risale al poema “Opere e Giorni” di Esiodo (VIII-VII a.C.), all’inizio dei tempi, gli individui godevano, senza fatica, del sostentamento spontaneamente offerto da una natura benigna, che il divino creatore aveva ordinato per il bene dell’uomo. Per la sua straordinarietà, questo periodo fu denominato “età dell’oro”. Tuttavia, a causa dei ripetuti inganni attuati dal Titano Prometeo a discapito degli dei, Zeus fece in modo che gli umani perdessero tale condizione edenica: da quel momento in poi, essi avrebbero dovuto affinare il proprio ingegno e adoperarsi laboriosamente per soddisfare i propri bisogni primari.
Se per Esiodo il lavoro non era altro che un castigo divino e causa di decadenza per l’umanità, a distanza di secoli, Lucrezio, poeta dell’età di Cesare, ne propose un’interpretazione antitetica. Nel V libro del “De rerum natura”, egli aveva negato ogni idea di provvidenza, dimostrando che il cosmo non era stato creato per gli esseri umani. Agli albori della storia umana, le difficoltà dell’ambiente inospitale avevano spronato gli uomini, stretti dal bisogno cogente di migliorare le proprie condizioni, verso l’invenzione delle artes (“arti” o “mestieri”). Dunque, secondo il pensiero lucreziano, da un primitivo stato ferino, l’uomo avrebbe escogitato, grazie all’esperienza e alla pratica, metodi innovativi per vivere al meglio e per marciare piano piano verso il progresso.
Uno sprone salvifico Nel modello repubblicano arcaico, il civis romano ideale era un “agricola”: un piccolo proprietario terriero, legato ai principi tradizionali del mos maiorum, come la virtus (lo spirito di sacrificio) e l’industria (l’operosità). In particolare, la figura dell’agricola ed i suoi valori vennero riportati in auge nell’età augustea attraverso quel programma di rinnovamento sociale, promosso da Ottaviano Augusto, e dalle opere degli intellettuali a lui vicini. È all’interno di tale contesto che si inserisce il poema didascalico di Virgilio, le “Georgiche”, volto a promuovere sia l’attività agricola, trascurata nel secolo delle guerre civili, sia il sistema valoriale ad essa legato. Dopo appena cento versi dall’inizio dell’opera, prende l’abbrivio un excursus sulla genesi del lavoro. Alle origini della storia, il poeta pose la dimensione paradisiaca dell’età aurea di stampo esiodeo, ma l’abolizione di essa non venne ricondotta ad un castigo divino: fu Giove a voler riscattare l’umanità da quello stato di “gravis veternus” (quella torpida pigrizia, in cui gli uomini languivano beati ma inoperosi) privandola dell’eccessivo benessere di cui godeva. Ponendo fine al degrado morale, introducendo la necessità del lavoro, e acuendo l’intelligenza umana, l’azione del dio si configura come giusta, una vera e propria teodicea (da «θεός» “dio” e “δίκη” “giustizia”): una giustizia divina del lavoro umano. Però, al di là di quest’apparente ottimismo e della fiducia in un ordine provvidenziale, tra i versi virgiliani si celano delle note pessimistiche:
“Labor omnia vicit improbus” “Il lavoro incessante, ha trionfato su tutto” (Georgiche, 1 v. 145)
Attraverso questo verso, diventato proverbiale, Virgilio proclamò il prevalere del “labor” su ogni aspetto della vita. Ma attenzione! In questo “omnia” non è compreso l’essere umano, perché, se il lavoro annulla l’identità dell’uomo, fatalmente, esso si trasforma in sfruttamento.
L’equilibrio precario tra lavoro e lavoratore Seppur in una veste diversa, il suddetto verso virgiliano risuona anche in epoca moderna, ed è la storia stessa a confermarlo. Basti pensare alle condizioni degli operai in seguito al processo di industrializzazione, considerati pura merce dalla quale ricavare profitto e alienati dal loro stesso impiego. La scelta di questa data per celebrare la festa del lavoro risale, infatti, all’evento del primo maggio del 1886. Quel giorno fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ridurre la giornata lavorativa ad 8 ore e richiedere alcuni diritti. La protesta si protrasse per più giorni e culminò con un massacro, ma quest’ iniziativa superò i confini nazionali e diventò simbolo delle rivendicazioni di tutti quei lavoratori che chiedevano di aver riconosciuta la dignità della propria professione.
Umano, non artificiale Ad oggi, in una realtà sempre più avanzata, in cui l’azione dell’uomo rischia di essere totalmente rimpiazzata dalla quella artificiale, vi esorto a concepire la festività odierna non solo come un pretesto per onorare i sacrifici di un tempo passato, ma soprattutto per ricordare l’autenticità del lavoro e dei suoi valori, poiché neppure la tecnologia più avanzata potrà sostituire la dedizione di un essere umano che mette il cuore in quello che fa.